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sabato 4 febbraio 2012

Carciofi ed allegria


Stamattina sono uscito a fare un po’ di spesa, perché qui prevedono un altro armageddon ed allora ho pensato di rendermi autosufficiente. Ho visto di sfuggita la Giuliana, ma oggi è sabato, non ci sono margini per intimi approcci. Mi sono fatto tentare da dei bei fondi di carciofo già puliti e così li ho comperati e sono tornato a casa a metterli su.
Vino bianco, olio, prezzemolo (poco all’inizio che poi mi diventa nero, glielo metto alla fine dopo averlo passato in acqua e ghiaccio che mi fa il bel verdino), due begli spicchioni di aglio e li ho messi lì belli tranquillini a borbottare.
E mi sono interrogato su cosa fare nella serata, un po’ dissuaso dal muovermi causa effetto Lapponia.
Questo però non mi ha impedito di dare un colpettino di telefono alla Milly, che è tanto che non la sentivo e che non mi dispiacerebbe che si prendesse cura delle mie vogliette nere.

Come va, va da cazzo, amico Tazio. Cosa nasce, amica Milly?
E la bella macellaia sadica mi narra di un increscioso episodio a causa del quale ho smesso di ridere circa un’ora dopo, evitando di farlo mentre conversavo con lei, perché lo sapete, io sono un signore.

I fatti sono semplici.
Alla Casa, da un po’, si è presentato un bel pezzo di manzo leccatore di piedi e di ani compulsivo, che ha manifestato esplicitamente il desiderio di diventare uno schiavo. Sin qui, nulla di che. Miss Milly affida il training a Miss Cora, una figura complessa di cui un giorno vi parlerò, la quale ha provveduto, giorno dopo giorno, ad educare lo schiavo come si deve. Redda, se dico cose sbagliate correggimi, ti prego. Lo schiavo in training non appartiene a nessuna Miss, per cui è lecito che anche tutte e due intervengano nella scoperta dei limiti, cioè sino a che punto quello schiavo tiene. Noti i limiti, le Miss possono decidere di possederlo (una sola può possedere lo schiavo, ma può possedere molti schiavi. Niente schiavi in sharing.) o di esitarlo al mercato degli schiavi che si tiene anche nella casa.
Per cui giù di brutto, keyword nota (la keyword serve a interrompere il training quando decide lo schiavo) e via così.

Miss Cora ne tesse le lodi a Miss Milly la quale, incuriosita, decide di presiedere di persona una sessione per testare le qualità del bel manzo.
E lo fa legare ceppato caviglie e polsi alla croce di Sant’Andrea, incappucciato e gaggato (la palla in bocca).
Quest’ultima situazione, però, si addice a schiavi di cui sono già noti i limiti e la Miss, conscia, rimane all’interno. Ma nel caso del bel manzo si era ancora in training, quindi sarebbe stato polite il consentirgli di pronunciare la keyword.
La sessione inizia e la macellaia padana comincia ad infliggergli cose pesanti, secondo una routine destinata agli schiavi più robusti, routine di cui non darò dettaglio manco sotto tortura, ma vi garantisco che uno che passa quella routine può entrare nei Navy Seals o nei Marines o alla CIA quando vuole.

Passa un’ora, passan due ore e la Milly decide che sì, che è soddisfatta, e lei stessa nella telefonata mi confessa di aver meditato seriamente sul possesso del soggetto.
Le sorelle gli tolgono i ceppi e le polsiere, lo aiutano a togliere la gagball ed il cappuccio, mentre Miss Milly gli va davanti per manifestargli la sua soddisfazione, con Miss Cora al suo fianco.

A quel punto avviene una cosa inconsueta.
Il bel manzo, all’improvviso, colpisce Miss Milly con una violenta testata tra il naso e la fronte, mandandola lunga, poi fulmineo assesta un calcio alla Totti sulla figa di Miss Cora facendola floppare sulle ginocchia priva di sensi, affronta una Sorella accorsa in aiuto con un gancio alla Tyson che la manda al tappeto e esce ignudo e ringhiante minacciando di far dar fuoco a quel palazzo di merda, mentre l’altra Sorella scappava per andare a chiudersi a chiave nel bagno.

Morale.
Miss Milly ha riportato una frattura scomposta al setto nasale che richiederà un intervento nei prossimi mesi, Miss Cora un trauma alla vagina con ematoma diffuso, la Sorella una incrinatura dello zigomo sinistro con ferita lacero contusa da punti quattro.

Trovo questo esilarante alle lacrime che a momenti mi si bruciano i carciofi.
Perché manco sempre quando succedono queste cose?
Ha!
Che profumino, comunque.

Scienza, non fantascienza


Piedi al bar
In 25 giorni sarà finito febbraio.
In 31 giorni sarà finito marzo.
Se il clima si comporta come l’anno scorso, il 15 aprile si riesce a prendere il sole nudi, seppure in luogo riparato dal vento. Se non c’è vento e va come l’anno scorso, il 15 aprile si prende il sole nudi dove si vuole, come è successo con la Vichi.
Quindi, su base 2011, in 71 giorni si può prendere il sole nudi. Ed è un bel dato, visto così, perché al di fuori delle potenzialità che gli arditi andranno a cogliere, conduce anche ad uno scoprimento delle carni pubbliche, data la mite temperatura. Ci sarà più allegria andando a comperare il Bio Presto, insomma.
Per i primi piedi, invece, bisognerà pazientare.
Per diversi ordini di motivi, che vanno dal timore di improvvisi abbassamenti della temperatura nell’arco del giorno, dal fatto che le Dee del Gineceo escono al mattino per andare al lavoro ed è ancora freddo, sino al fatto che molte non avranno fatto la pedicure, eliminando l’unghia gialla o il callo o la suola. Ebbene, per questa somma di variegati motivi sarà l’orrida sneaker a far da padrona per un po’, in luogo di qualche sandalino perfettamente sostenibile.
Sulla base della mia scientifica e documentabile esperienza, quindi, se il 15 aprile consente il cazzo nudo in libertà, il piede nudo come standard arriverà non prima del 7-8 maggio.
Quindi mancano ancora 94 giorni approssimativi.
E la notizia è già meno vivace.
Se poi la si confronta con un altro dato, essenziale nella scientificità della proiezione, che è quello di quando è stato avvistato l’ultimo temerario piede nudo, il quadro si tinge di tinte fosche.
Ho avvistato l’ultimo piede nudo oltre la metà di ottobre, che fissiamo per comodità nel 16.
Quindi 107 giorni fa. Vero è che manca meno di quanto è passato, ma altrettanto vero è che si è oggettivamente nel mezzo del guado. Per cui ecco un documento che risveglia i ricordi e scalda il cuore.
E non solo.

Sabatazio


Bon jour.
E’ sabato.
Un’altra settimana è volata via.
Sono stato scaricato da quindici giorni esatti da quella Perla di Labuan della Domi, che non mi vuole nella più assoluta delle maniere.
In compenso mi vogliono consolare l’enigmatica e figa Veronica detta Nica, la mia ragazza Alessandra e l’incommensurabile Elisabetta.
In compenso sto mettendo in piedi un PuttanParty delirante per il diciotto di febbraio.
In compenso ho preso dell’altro lavoro.
In compenso ho massicciamente contribuito a trasformare un disastro lavorativo epocale in una cosa ben riuscita.

In sintesi ho deciso di chiudere, pur con tutto il dispiacere e il malessere che di fondo ho, l’argomento Domiziana anche dentro di me.
Perché una cosa è dire “ho chiuso”, non fare niente di fisico e materiale per ricontattarla e sentirla, ma serbare di dentro la costante speranza di una telefonata che riapra gli orizzonti, ed una cosa è sì non fare niente di fisico e materiale, ma anche staccare la spina alla speranza di chissà cosa.
Credo di averla staccata ieri la spina. O Ieri l’altro.
Fatto sta che è staccata.

Ieri sera cena tardi con il Costa e Labarista, il Loca e la Emy e io con la Ale. Siamo stati all’Osteria Quellanuova perché non c’avevamo cazzi, tutti, di mangiare del piombo alla Solita.
Abbiamo bevuto diversi vini, spiluccato duemila cose e ce la siamo passata via raccontandocela.
Verso le undici e mezzo la Ale ha aggiornato e io non le chiedo e non voglio sapere. A me basta che la Ale dica “devo proprio andare” che io la lascio andare senza chiedermi dove, con chi, perché, ma dai resta.
Se deve proprio andare va.

Me ne sono tornato a casa e mi sono fatto una ricca sega pensando alle cosce della Emy, che c’ha due gambe da non crederci.
E poi, tac, sono qua, che avevo anche bisogno di dormire.
Adesso mi oriento tra quello che ho voglia di fare, seghe comprese, e questo mi dà relax.
E’ così che deve essere un sabato.
Buon sabato, bon jour, bon jour.

venerdì 3 febbraio 2012

Cortesie per gli ospiti


Poi si sposta e va nello spogliatoio e mi dice che se voglio fare proprio una cosa spaccacaulo, devo preoccuparmi di piccoli dettagli importantissimi. D’accordo che la festa è ufficialmente una festa di Carnevale, ma il suo fine è che si trasformi in un bel mucchione. Ed allora, nel momento in cui si trasformerà in mucchione, è cosa gradita se compariranno d’improvviso: preservativi, salviette umidificate del tipo Fresh&Clean, asciugamanini e IMPORTANTISSIMO: lubrificante ano-genitale monodose strizza-ungi-butta e poi FONDAMENTALE: qualche scatoletta di Viagra qui e lì.
La mia ragazza è un pozzo di virtù.

A buon punto, a buon punto


Nella lunga telefonata con la mia ragazza emerge che per la pappa lei consiglierebbe questo: cena a buffet, ciascuno si serve, ciascuno mangia dove gli pare, e ok. Poi dice di dividere in tre macrocategorie il cibo: antipasto, piatto unico, verdurine e dolci di Carnevale, che se no che Carnevale è. Giustissimo.
Dice di saturare gli stomaci con gli antipasti, che è più semplice da gestire e rende più snello il main course.
E mi pare una bella strategia.
Per cui, ecco a voi:

Sezione antipasto:
tramezzini, tartine al salmone, al tonno, al pescespada, al caviale, bruschette miste, vol au vent, pizzette, briochine salate, chele di granchio fritte, olive ascolane, piatti di affettato ben costruiti con grissinoni, salami self service con parmigiano reggiano e mille pani, di zucca, al sesamo, gnocchi ingrassati, grissini, ricco pinzimonio di cruditè e tre quarti di stomaco è riempito anche per i rudi menworker dell’Alabama.

Sezione main course:
gigantesca insalatona di pollo tipo alla Gonzaga, con variante Ale, che oltre al radicchio, alla valerianella, ai pinoli e l’uvetta, mette pezzetti di arancia e ribes rosso, che visivamente fa la sua schifosa figura.

Sezione dolci:
Frappole, bomboloni alla crema e allo zabaione, castagnole e struffoli che la Ale ha origini vicine a Napoli e quelle la fanno impazzire.

Vino e liquori cazzi miei, mi dice. Lì mi sento forte, no problem.

Bene, le dico, quando comincio a fare tutta ‘sta roba? Ma Tazietto, mi dice, ho disegnato il menu giusto perché con tre, numero tre, fornitori di fiducia tu abbia tutto pronto bello che fatto e consegnato e messo a posto. Geniale la mia ragazza.
Certo, mi dice, ci vorrebbe una persona di servizio, che se serve una scaldatina, se si rovescia un bicchiere, che apre le bottiglie, che controlla cosa serve e lo rifornisce. Una minimo, due sarebbe meglio.
Le ricordo dei cubani e mi dice che peccato, sì.
Ma la mia ragazza mi assicura che risolverà anche quello, sì.
Siamo a buon punto, siamo a buon punto.

La Ines


Ho sentito la mia ragazza, la Ale. Perché la Ale è la mia ragazza. O meglio, quale motivo ho perché non lo sia, no? Bene. La mia ragazza mi ha telefonato in un momento morto della pale, per darmi notizie positive. La mia ragazza mi ha detto di aver accennato della festa ad una certa Ines, che va lì a far Pilates, che è divorziata, c’ha 36 anni e a detta della Ale è moolto carina e anche veloce. La Ale è stata generica, perché vuole che io la veda la Ines prima di invitarla, ed è per questo che ha detto che forse ci sarà una festa. La Ines, comunque, ha detto che, qualora ci sia questa festa, dato che ci va sia la Ale che la Nady, ci verrebbe volentieri pure lei. Ohibò, questa è più che una bella notizia, poiché un apparato riproduttivo femminile abbondantemente deflorato in più non guasta.
Siete fieri come lo sono io della mia ragazza Alessandra?
Sono ultracerto di sì.
Aggiorno.

Nevica


Come nei documentari sull’Africa bella e selvaggia. Dove scopri che anche le cose che ti appaiono tenere e delicate sono, in realtà, l’espressione di istinti e necessità basiche che si approssimano allo zero o all’uno senza cifre intermedie.
Così la carne del corpo umano della Betta.
Rotonda, sensuale ed ammiccante, persino spiritosa, sicuramente rassicurante quando la civiltà degli abiti e la tranquillità dello scorrere quotidiano la incorniciano.
Cruda bellezza senza canoni, quindi assoluta, quando cruda e nuda.
Espressione di necessità istintiva e animale quando adagiata sinuosa su bianche anonime lenzuola.

Dettagli.

Un mondo di entusiasmanti dettagli mozzafiato, a partire dai capezzoli, ovali, scuri, grandi, duri, increspati di mille creste carnose concentriche sulle quali si erigono tozzi ditali di carne in cui si distingue il forellino a forma di scomposta ipsilon tripartita. Per continuare con le onde di morbida carne sensuale che muove la pancia sotto l’ombelico, grande, profondo, ritorto, nel quale si distinguono i forellini di un piercing abbandonato da tempo per motivi ignoti e che non intendo scoprire. E poi, osservando con minuzia maniacale, una traccia impercettibile di minutissimi peletti neri che dall’ombelico si inseguono verso il pube, come orme solitarie su un manto di candida neve che vanno a perdersi nel lucido bosco di peli robusti, scuri, lucidi, densi.

Un triangolo selvaggio e affascinante, lasciato incolto in attesa della bella stagione. Un boschetto non esteso, ma selvatico, caldo, morbido, profumato, alla cui estremità massima si sviluppa un paradiso di odore e sapore e forme particolari, carnosissime, grosse, estroflesse, marcate, labbra calde, scure, che una volta schiuse rivelano una sorpresa incredibile, commovente, seducente.

Un piccolo cazzetto tozzo, lungo quasi un centimetro, un clitoride plastico, visibile, masturbabile con due dita proprio come fosse un microscopico cazzo. Delizioso da spompinare, paradisiaco per le reazioni che le induce. E poi gambe lisce, candide, belle, che portano la lingua ai piedi sognati, desiderati, agognati. Lisci, intarsiati di tendini e vene, le dita snodate, le unghie coperte di anonimo e mite smalto trasparente. Caldi, robusti, inodori, morbidi e duri di suola ingiallita dall’inverno inclemente e l’incavo increspato e la caviglia e poi su di nuovo lungo l’interno delle tenere cosce fino alla base delle natiche generose, amorevoli, che celano la vista del solco del culo intarsiato di timida peluria che si erige sulla caldissima pelle pigmentata più scura e poi il bocciolo, con una cresta ad uncino che solca il perineo e scompare nel foro della vagina, quasi fosse una graffa che unisce i due fori in un’artistica simbologia che esprime un sillogismo affermativo, che sottolinea i luoghi sacri del piacere, profumato, animale, che invita ad essere annusato per rassicurare il mio io animale che sì, che quella mammifera femmina in estro appartiene alla mia razza ed è pronta alla monta e i suoi ferormoni lo indicano senza possibilità di errore.

Mi sciolgo nella sua saliva e lei si scioglie nella mia, senza una parola, senza un suono, ad eccezione del respiro intenso, libero di essere fiato soffiato con forza, ad eccezione del rumore delle lingue che leccano senza curarsi di non dover emettere suoni.

Una pausa nel tempo. Una cancellazione delle identità, un accantonamento temporaneo dei legami, delle relazioni, dei rapporti uno a uno, uno a molti, molti a uno e molti a molti. Unione. Un’unità animale, priva di remore, scrupoli, timidezze, rimorsi, quesiti.
Un’unità fuori dal tempo e dagli schemi, perduta in una bolla parallela.

E poi fuori nevica.
E io le lecco la schiena chiavandola lento alla pecora e le mie mani non sono sazie di carne, di forme, di calore, di esplorare e sento il rumore del cazzo che sciacquetta nei suoi abbondanti umori vischiosi e profumati e sento le sue stupende mammelle animali che dondolano pesanti, appese al suo petto e sento il suo mugolare e vedo la sua chioma leonina, nera, scomposta e godo di come il mio enorme cazzo di marmo si perde nella scura valle delle sue natiche e la scopo con tutta l’anima che ho.

Con l’anima.

Ti osservo mentre cavalchi lenta, sinuosa, rotonda, ipnotica, mentre le tue mammelle stupende dondolano ritmiche e i tuoi occhi si chiudono ed un ciuffo di nerissimi ricci ti cade sul volto sino a lambire la bocca che respira, rumorosa, sofferente di tutto il cazzo che ti spingi in fondo, mentre inarchi la schiena in avanti e all’indietro, ruotando sincronizzata il bacino a svangarti la figa e sei bella, sei arte, sei una puttana berbera in una tenda nel deserto mentre doni piacere al touareg che ha attraversato l’inferno, sei nuda, sei un boa variopinto che si accoppia lentamente e fuori nevica e noi siamo qui a dimenticare la vita e a parlarci coi sessi.

Poi ti giri e mi cavalchi a rovescio ed il mio cuore si ferma, sono in uno stato di minima coscienza, osservando il tuo ano polposo che ad ogni affondo che dai si schiude come una piccola bocca increspata e vi passo la punta dell’indice, delicato, sortendo una tua nota soave, forse un sol, forse un re e quando fai scivolare fuori la mia verga lentamente, per poi fagocitarla con forza, godo delle tracce bianche di lucido muco che la ricoprono e ne prendo tra le dita e lo assaggio, dolcissimo, intimissimo, estasiante.

Poi, come se sin lì si fosse trattato di un preludio suonato pianissimo, scendi dal palo che ti ha donato il piacere, ti volti e lo succhi. Lo lecchi. Lo ingoi più che puoi. Ed imprimi nuovo ritmo, nuova aria, nuovo movimento e succhi, succhi vorace, veloce, mordi, lecchi con la lingua grandissima e piatta e mi guardi dalle fessure erotiche e ostenti e vivacizzi, enfatizzi l’immagine di te con il mio cazzo in bocca e istighi la carica, la caccia, l’attacco, la violenza della lotta che precede la cattura della preda e io rispondo, fraseggio, grugnisco godendo sino all’ultimo dendrite e ti schianto, ti prendo, ti infilo la minchia tra i peli bagnati e ti spacco la figa senza pietà alcuna perché questo è il momento della caccia spietata, ti fotto in ogni modo, spingendoti a gridare, mugolare, picchiarmi i pugni sul petto, sulle spalle, senza rinunciare a non darti tregua, leccandoti, mordendoti, ficcando fino alle palle la mazza che da tanto, tantissimo, sofferto tempo desiderava darti ciò che meritavi, cioè cazzo, cazzo, cazzo e ancora cazzo, il mio cazzo, mentre avverto impetuosa di dentro un’onda che mi spinge il bacino a movimenti furiosi, ordinandomi sadica di annientarti, di annichilirti, di possederti senza via di ritorno e ti sbatto, ti faccio pagare tutto il desiderio che mi hai da sempre generato e tu godi, sorridendo, ansimando, grugnendo, chiamando dio molte volte, chiamando la tua mamma, la tua, divenendo assertiva di sì convinti e violenti ed allora, solo allora, comincio a parlarti, per rendere isterico il desiderio e il piacere e ti fornisco dettagli di base su cose che ho visto di te e cose che ho poi fatto su di me e mi confessi che anche tu hai visto cose su di me che hanno poi indotto cose su di te, su quel cazzetto ipnotico, ed il pensiero mi fa sublimare il cervello e ti sguscio di fuori ordinandoti di farmi vedere come fai e tu a gambe aperte ti tormenti epilettica la sorca sfondata e inzuppata e io mi tiro e mi strozzo il cazzo e tu sbavi per la situazione e non resisto e te lo sbatto dentro d’un fiato, senza pause, senza cerimonie e mi appoggio le tue gambe sulle spalle e mi disarticolo le vertebre sacrali per fotterti l’utero e succhiarti i piedi e mi guardi leccare, sollevandoti le mammelle gonfie, succhiandoti rumorosa i capezzoli e poi smetto.

Smetto per schiacciarti col mio corpo, senza più virtuosismi e mi abbracci e ansimi più forte, chiami dio, chiami dio, chiamo dio e poi urli un canto berbero lungo e gutturale e io sbatto, perché è con l’anima che  ti sto chiavando e voglio che vieni come non sei mai venuta prima e anche se sento la sborra che marcia lenta resisto, resisto sinché il tuo canto si affievolisce e mi richiedi, mi imponi, mi sottolinei che hai bisogno, che non puoi rinunciare a sentirmi venire e io esco, strozzandomi rapido, ma tu vuoi partecipare e mi seppellisce l’uccello tra quelle montagne bollenti e le usi come fossero mani e io annego la tua catenina, quel pendaglio d’oro con la medaglietta sacra, schizzo, irroro la tua pelle di seme odoroso e poi ci baciamo.
Lenti. Appiccicosi.

E fuori nevica. Nevica. Nevica.

E in breve lì dentro si materializza quel dopo che assume molte forme e manifestazioni, ma che viene sempre sottostimato, distorto. Il dopo non viene valutato come quanto sta succedendo in seguito allo scontro di forze, ma sempre come il prima di ciò che andrà ad accadere: il ritorno al lavoro, il ritorno a casa, il sonno.
E così, chi svisa la valenza del dopo si perde l’intimità del quotidiano, la seduzione involontaria di chi seduce suo malgrado.
Ve lo siete mai chiesti, sognando di chiavarvi un’emerita sconosciuta di cui magari ignorate il nome, come sarà vederla asciugarsi le gambe dopo la doccia che avrà fatto in seguito alla scopata?
Son dettagli di pura poesia che a volte mi attraggono più della scopata.

E così con lei.
Com’è intimo vederla uscire dal bagno nuda, dopo la doccia e vederla che ricomincia a vestirsi guardando preoccupata quel malefico mare di neve che cade incessante. Com’è bello alzarsi e baciarla per sentirsi ripetere che è stato “pazzesco, pazzesco, pazzesco” tra mille intimi baci bollenti e che non immaginava e che è fin stordita da quanto “pazzesco” è stato tutto.

Poi stop.
Si va al nero due secondi.
I toni variano, i contenuti anche.
Ripasso del briefing.
Mi bacia con occhi di sogno e va.
Io resto e mi faccio una doccia, fuori nevica, nevica, nevica. Devo proprio convincermi ad uscire.

Non devo schiantarmi, no, vietato, divieto.
Filtrare, distillare e mantenere la temperatura.
Ecco cosa devo fare.
Carnale Betta.

Tazio is back


Bon jour amici. Bon jour.
Perdonate l’assenza, mi scuso con voi, ma non è esatto dire si sia trattato di cattiva volontà.
Mercoledì pomeriggio, nel tardo pomeriggio, si è verificato un problema tecnico che ha fatto sì che io, il Loca, Zack e Matt, si sia lavorato tutta la notte di mercoledì e tutto il giovedì a tirata unica, tirata che è terminata (finalmente) alle 23:45 di ieri notte e vi garantisco che non ero proprio fresco da mettermi a scrivere.
Abbiamo vinto noi, comunque.
Per cui siate pazienti e tra qualche caffè sarò pronto a stare con voi, che mi siete mancati e mi avete scaldato il cuore con i vostri deliziosi interventi.
Tazio is back.
Bon jour.

mercoledì 1 febbraio 2012

Cerimonia

La cerimonia del caffè si estende a Matt e alla Pattydesign.
Si parla con le voci roche e gonfie, si sorseggia.
Incrocio lo sguardo della Betta.
Un secondo.
Occhi che sorridono, scuri, erotici.
Sono trepidante come uno scolaretto.

Mercoledì

Bon jour.
Porca troia, nevica. Siamo nel budello buio dell’inverno più merdoso. Quello che ogni mattina ti dice che i tuoi programmi lui li cambia come cazzo vuole. Quello dove è sempre notte, fa un freddo carogna e tu un pochino cominci a sognare un pratino verde sul quale stenderti sotto il sole caldino e scappellarti mezzo nudo con le voglie di una troietta di sedici anni che fa fatica a tenerla nelle mutande.
Bon jour, oggi è il giorno X, la data agognata, il momento fatato in cui annuserò l’intimo e proibito profumo genitale ed anale della Betta, il giorno in cui mi imbratterò con i fluidi della sua natura sessuale, il giorno in cui le rivelerò che sì, che è tutto vero, che è tutto duro e che è tutto per lei.
Bon jour.
Sono emozionato.

Indolore

“Sono tanto stretta, mi devi promettere che se ti dico che mi fa male smetti”
“Promesso”
E spalmo i miei speciali lenimenti preventivi e i lubrificanti pro attivi. E mi rilasso all’idea di metterci molto.
E ci metto molto, ma poi finalmente, sento il caldino e vuol dire che sto entrando.
Che bel sederino, la Ale. Ed è vero, eh. E’ strettissima lì. Credo mi sia diventato duro sino alla nuca.
Piano, pianissimo. Bisogna anche dare un po’ di tempo al lenimento miracoloso.
Che bello l’effetto lucido lì nel mezzo e sull’uccello. E la vena mi si gonfia come una camera d’aria e l’uccello si scurisce di sangue.
Pianino, pianino, pianino.
Centimetro dopo centimetro. Ma no. Millimetro dopo millimetro.
In mezzo a mille strette contrazioni e pulsazioni.
La Ale con gli occhi chiusi e i capelli sparsi. La boccuccia aperta in un’espressione di sofferenza interiore, ma non dice che le fa male.
Pianino, pianino.
Finché è tutto.
Il mio pube contro le sue natiche muscolose. Capisce e scivola sulla pancia.
Mi chino e la bacio. Le chiedo se le fa male.
Ruzzola un “no” in estasi sospesa.
Muovo piano all’indietro e poi in avanti piano. Aumento l’estensione, ma rallento la velocità. Sudo dalla tensione e dalla concentrazione.
Dentro, poi fuori, sempre più esteso, ma pianissimo.
Chiedo se le fa male.
“Sei bravissimo” rantola quasi sbavando sul cuscino, quasi fosse l’ultima frase prima di spirare.
Ah Sandrina, quante soddisfazioni mi dai.
Hai accettato di provare a prenderlo nel culo, preoccupata, quasi certa di sbottare un ahi all’inizio, pronta a passare ad altro e invece eccoti qui. Piatta di pancia sul letto mentre ti allungo e ti accorcio ‘sto fior di cazzo ligneo nel budello odoroso, che quasi non contrai più e io è quel momento che aspetto, per iniziare a chiavarti come dio comanda.
Lentamente.
Facendo sgocciolare qualche aiuto nel mentre.
“Ti piace?” – “Sì…”
Ma pensa.
Accelero, ma con moderazione. Respirazione accelerata.
La mano sporcacciona scivola sotto e comincia  ad accarezzare la bernardina implume.
Masturbati, amore.
Accelero.
Un gemito.
Non chiedo. Misuro tutto dalla velocità con cui le dita stropicciano quella carnina tenera.
Accelero.
Accelero.
Sono in velocità di crociera, quella che mi fa godere bene, intensamente, quella che può aprirmi la voragine.
La Sandrina gode, non c’è dubbio.
Gode e dopo un bel po’ che la inculo, comincia a venire, nessun dubbio, le piace.
Sussulta e dice ahi, poi sì, poi ahi, ma sussulta lei, si fa del malino delizioso da sola.
E allora io mollo. Pregiudizi, preoccupazioni, remore e scrupoli. Non accelero, ma mantengo. E sento la corsa di dentro, che corre liquida e pizzicorina, che sale e vengo e lei sorride con gli occhi chiusi e io vengo mentre lei contrae sorridente, che ha capito il giochino, oppure lo sapeva, e quando mi sente sussultare, contrae e sorride.
Poi scivolo fuori lentissimo. Lentissimo.
E quando la cappella sguscia e il muscolo torna a chiudersi, quella ‘a’ sorridente è una soddisfazione.
Cado steso, si gira.
E’ raggiante, luminosa.
Mi succhia i capezzoli e con la mano corre là a giocare con la mia cappella inzaccherata.
E dopo un po’ bisbiglia.
“Non ti diventa mai molle e piccolo… si rammollisce un po’… ma resta grosso… e se ti tocco la cappella così… qui… in un attimo ricomincia a tornarti duro… senti qui… è bellissimo… ti tira… senti come ti tira di già… “
E mi sale di sopra, infilandoselo dentro, cominciando a galoppare di bacino, stesa su di me.

Delizioso.
E indolore.
In tutti i sensi.

martedì 31 gennaio 2012

Tutto in un secondo

E’ l’ora dell’esodo. Tutti migrano e salutano, chi forte, chi di persona.
Poi arriva la Betta, che in produzione non c’era più nessuno. Entra, si chiude la porta dietro le spalle, cappotto, sciarpa, borsa.
“Come sei messo domani?” chiede sottovoce.
“Bene” rispondo sottovoce con il fiato sospeso. E allora con la mano guantata di lana verde, mi allunga un foglietto. C’è l’indirizzo di un albergo. Aggiunge veloce “Due e mezzo parto, tu arriva dopo mezz’ora”.
Volevo chiedere se dovevo ingoiare il biglietto o fare attenzione perché mi sarebbe esploso in mano, ma ho solo detto “Ok”.
Mi ha mandato un bacio, seria, un po’ tesa, ed è scomparsa nella notte.
Tutto in un secondo. Subito dopo la Cassini. Che ha problemi a chi darla stasera, mentre la Betta ha risolto il problema di a chi darla domani a pomeriggio.

Ma vi rendete conto, dico?
Ma questa è l’apoteosi della sozzura incancrenita. Perché dico, due si filano, poi gli prende lo sturbazzo randazzo rampazzo, si ingroppano e chiavano. Vedi le memorabili chiavate sul lavandino fatte con la Squinzy nella bottega di N. Ma c’è lo sturbazzo che prende e *tac* ti cali la ficcarella.
Ma qui no. Qui siamo nel pieno della liturgia prostitutesca con il contatto telefonico per accordarsi di fottere alle ore x del giorno y. Manca solo la transazione in danaro (spero), ma per il resto c’è tutto.
Sesso bieco, cinico, crudo, spregiudicato.
Poi si laverà, si vestirà e tornerà a casa a far da mangiare al maritozzo e al bambinozzo, col grembiulino davanti, le ciabatte e Mentana nella televisione che parla di Monti.
Tutto questo è a dir poco sozzamente sublime.