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mercoledì 5 ottobre 2016

Casa mia casa mia


Che poi, ok, ‘ste estiche c’hanno una fisicata che neanche la Barbie e un senso del pudore che nemmeno la mia tavoletta del cesso, va bene che ti incensano e idolatrano (ma d’altra parte gli paghi una camera come fosse un mutuo trentennale al 17% non negoziabile sulla Reggia di Caserta) va bene che si strafanno come le scimmie e tu ti diverti, ma tutto per un po’però, perché di inspiedare delle pollastre che fanno coccodè in una lingua che non cazzo conosci, dopo un pochettino ti cazzo fratturi il coglione, cazzo.

A Riga tutto bene, prendiamo anche il negozio accanto che chiude e allarghiamo la parte mono-autoriale che ne avevamo il di bisogno, ora che alcuni artisti russi ci adocchiano, l’albergo è sempre una magia spaziale del 1800, il Bergolettone sempre più un amico e la città sempre un mistero attraente. Lo chiamo Bergolettone perché Lettamasco mi pare brutto.

Ma poi torno al pollaio e la prima mattina che mi sveglio trovo la Nevenka al pezzo, ferro da stiro al calor bianco, caldaia che sbuffa come una kriegslokomotive BR 52 di uncinata memoria, toppino nero da banchetto di Rumènia, con reggiseno a fascione bianco ingrigito di cui si intravede un arruffato bordo, fuzò grigi di maglina effetto guardachemutandazzabiancachec’hoattornoallacellulitechemimascherailculo, ciabattazza da piscina blu con righe bianche, smalto rosa-perla-ammalata-di-tisi, tutta bella lucida di sudore sotto le clavicole ignude, che sbuffa dicendo, squillante come una chiarina di Raffaello Sanzio “Madù Tazio che caldu che fa ancora, ma inverno non venire mai? Io schioppo stirare cosgì sai?” che mi fa mixare lentamente la Repubblica Ceca e la Lettonia con un pizzico di Moldavia che, alla fine, sembra di stare in piazza a Sant’Agostino alla sagra del gnocco fritto, se solo ci fosse del peperoncino di Soverato.

Ma poi torno, dicevo, e la guardo e sento che qualcosa, qualcuno, qualchè mi suggerisce che saltarle addosso e ingropparla alla strazzona, affondando la minchia in quel cuscino di pelo compresso che sicuramente avrà nella mutandazza sanitaria, mi impirilla non poco.
E allora mi doccio e sego, con lei di là.

Perché un uomo nella vita deve decidere se una monta randazza della moldava porcazza, monta che al 99,9% riesce per un ventaglio di motivi vastissimo, vale il disagio di perdere poi l’operatrice di caldaia e di mille altre fazende e, amisgi no, nononononono, per cui sega selvaggia e morta lì.

Altri fatti di spessore come quelli sin qui citati?
Fatemi pensare.

Ah sì! A Riga, in un momento di depressione che manco i Lemmings, ho uazzappato alla Squinzy un messaggio che faceva più o meno così, aspettate che prendo la chitarra.
Do7: “Ci sono momenti in cui mi rendo conto del baratro che ho dentro e che sono riuscito a dimenticare solo quando c’eri tu e mai più. Mi vergogno a pensare ai baratri che avrò lasciato in te e del fastidio che sicuramente questo messaggio ti darà, ma la realtà è che mi manchi.
Insomma c’erano dei baratri qui e lì, una pennellata sulla fugacità della vita e uno stridor di denti dal rimorso e così e colà.
Risposte: zero.
Strano.

Insomma amisgi che numerossi mi seguita da cassa, credo che la vita vera sia anche non mancare mai l’occasione di apparire uno sterminato coglione, che i treni della coglionaggine è pur vero che passano ogni quattordici minuti, ma è anche vero che le carrozze di prima sono sempre piene.
Piene, come la madre del coglione.
Che anche lei viaggia in prima.